Come ama una stronza, (scritta per il challenge di <b>iosonosara</b>)

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CAT_IMG Posted on 5/3/2008, 21:15

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Titolo: Come ama una stronza
Characters: Simone Deveaux, Isaac Mendez, implicito Peter Petrelli
Pairing: Simone/Isaac e ahimè, Simone/Peter
Disclaimer: non sono miei, ovviamente, e blablabla
Rating: R
Warnings: contiene riferimenti (ma nulla di trascendentale) ad una delle scene tagliate da 1x02 - Don't look back. E' una scena che davvero, preferirei non averla vista... ma oh, esigenze di copione u.u
Notes: Scritta per il challenge organizzato da iosonosara sul quadro 'Notte Stellata' di Van Gogh e una citazione di Eliot. Le altre sotto lo spoiler che so' lunghe, ma leggetele... guardate che mando l'uccellino a controllare, eh!
SPOILER (click to view)
Alur, sì, lo ammetto: non ho fatto i salti di gioia quando è morta. E sì, li shippavo - per quanto si possa shippare una coppia quando arriva Peter Testosterone-A-Manetta Petrelli a sconvolgertela completamente. Lei ho davvero cercato da subito di farmela andare a genio, ma essendo io una grande sostenitrice di Isaac e Peter, non ho mai sopportato il modo in cui li ha fatti soffrire - entrambi, perchè alla fine sono stati male entrambi. E Peter si potrebbe dire (lo dico, infatti :P) che se l'è cercata, lui, la sua sluttyness e tutto il resto, lo so, ma peraltro stiamo parlando dlel'unico e solo contesto in cui sono costretta ad andargli contro (e credetemi, shipparlo con qualcun altro non aiuta u.u). Tornando alla fic, è ambientata durante 'Distractions', dopo che Simone e Isaac si sono abbracciati sul tetto (e Claude ha portato Peter a vedere con che razza di...ahem) insomma, lì. Non so se dopo possa essere successo veramente questo, è un po' un'esagerazione. Ma avevo l'idea grezza in testa già da un bel po' e lo spunto datomi dal challenge mi ha permesso di concretizzarla. Ok, dovrei aver finito <3 buona lettura! (oddio, mi ritroverò Peter/Simone tra le tags. Brrr. Tra un po' devo metterci pure Peter/Nathan, tanto a 'sto punto...)


Come ama una stronza.



Ti prendi una ciocca di capelli e te la rigiri tra le dita. Lisci. Come spaghetti. Chissà perché, poi. Ti ricordi che da ragazzina avevi la mania di farti la piega ogni volta che, per qualche stupido motivo, ce l’avevi con te stessa o con la tua immagine e sentivi il bisogno di cambiare. Buffo, se pensi che mai prima d’ora hai provato un tale disgusto per quello che sei e per quello che hai fatto, che fai ancora e che – ed è questa la cosa peggiore – non sai per quanto altro tempo continuerai a fare.

Senti qualcosa pungerti gli occhi, ma ormai sei convinta che le lacrime abbiano preso a bagnarti il volto per inerzia. Un pianto in più o uno in meno, che differenza vuoi che faccia. Sono così poche le persone che ti hanno vista piangere, e non senti certo il desiderio di ampliare la lista. Sei patetica quando lo fai. Più patetica del solito, s’intende.

Ecco perché ami i momenti in cui sei l’unica ad essere sveglia, o se non altro lo sei entro le mura di casa tua. Casa tua. Sbuffi. Casa sua, vorrai dire. Quella non è mai stata casa tua. Lo sarebbe stata, forse, se gli avessi dato retta le volte in cui ti chiedeva cosa ne pensavi di vivere insieme. Lo sarebbe stata un giorno, magari, se non avessi passato mesi a cercare in lui tutti i difetti che la tua mente limitata poteva concepire, fino ad innamorarti di un altro. Già, forse se le cose fossero andate in un altro modo, voi due sareste vita, e non morte. E non nausea, muffa, giramenti di testa e sensi di colpa.

No. Stanotte quello non è il tuo letto. Sei solo la sua puttana. E se domani mattina non ti pagherà il conto, è solo perché i soldi gli servono per qualcos’altro, e lo sapete bene entrambi di cosa si tratta. Dio, vorresti prenderlo a schiaffi. Vorresti dirgli in faccia che alla fine la colpa è tutta sua. Più che altro vorresti crederci. È dannatamente ingiusto, ma dare la colpa a qualcun altro magari ti farebbe sentire almeno un po’ meglio. Chi brucerà all’inferno, in fondo, forse merita di trovare un briciolo di pace almeno finchè sta con i piedi su questa fottutissima terra, no?

Guardi il cielo notturno macchiato dalle luci di New York, e chissà come ti ritrovi a pensare al quadro che i tuoi genitori avevano appeso in salotto. Una fedelissima riproduzione della ‘Notte stellata’ di Van Gogh, l’orgoglio di tuo padre. Quando invitavi a casa i tuoi amici o organizzavi una festa di compleanno, vi avrebbe permesso di sfasciare l’intera casa, ma quello doveva restare intatto. A volte, quando rimanere concentrata sui compiti richiedeva troppa fatica e concentrazione, ti perdevi a guardarlo e a chiederti cosa fosse passato per la mente di Vincent Van Gogh per portarlo a vedere il cielo in quel modo. Ti domandavi se il cielo non fosse veramente così. Lo fissavi e lo fissavi ancora, fino a che gli occhi non ti bruciavano e l’intera tela non finiva per farti paura, convincendoti che l’universo potesse finire per trasformarsi in un tornado e sbranare la gente.

Hai perso gran parte di tutta quella fantasia, crescendo. Ma quella ‘stronzata dell’universo’, come l’ha chiamata Isaac quella volta in cui gliel’hai raccontato, hai finito per scoprire che purtroppo è vera – e sarà ironia della sorte, ma quella volta eri stata tu a vederci giusto. Sfidi l’ordine delle cose, come è giusto che siano, e tutto ti si rivolta contro, risvegliando una forza che ti corrode da dentro, fino a farti augurare di poter morire. Tu l’hai fatto. Hai osato. Ti sei spinta troppo in là mettendo in ballo tutta te stessa, anche quel pezzo di cuore non tuo che qualcuno ti aveva affidato, e va bene, giusto? Hai giocato con i sentimenti di due persone, ma va bene, giusto? E ora forse l’universo si aspetta che sia tu a mettere tutto a posto. E va male, cazzo. Va male tutto quanto.

Vai male tu.

Volti il capo e i tuoi occhi percorrono il corpo addormentato tra le lenzuola, e ti accorgi di quanto vai male. Più lo guardi e più la fitta di dolore diventa forte. Forse la soluzione sarebbe non guardarlo, ma sei stanca di scappare.

Un braccio gli attraversa lo stomaco e l’altro pende lungo il letto – quel letto, Cristo santo, quel letto. Ti chiedi con che razza di coraggio tu sia riuscita a tornarci insieme a lui, dopo ciò che hai fatto tra quelle lenzuola. E con chi.

No, non una puttana, anche peggio. Decisamente peggio.

Il salone è pieno, e risuona di applausi quasi assordanti. Con un paio di mosse abbastanza eloquenti alcuni giornalisti riescono a placare la marea di domande che sommerge il povero Charles Deveaux, deliziato ma anche leggermente intontito da un simile entusiasmo da parte del pubblico.

Si schiarisce la voce, prima di inforcare un paio di occhiali. “Benvenuti a tutti, cari ospiti. Lasciatemi dire che sono decisamente sorpreso del successo che questa mostra ha avuto, ma ne sono ancora maggiormente lieto. Raccogliere queste fedeli riproduzioni di quelli che durante la mia vita hanno rappresentato le opere artistiche più importanti e a cui sono più legato non è stato facile. Ma posso garantirvi che si tratta di una soddisfazione notevole…”

Una mano ti picchietta impaziente su una spalla. Ti volti appena in tempo per vedere chi è stato a richiamare l’attenzione, prima che questo si rivolga a te. “Mi scusi, sa dirmi dov’è il bagno?”

Per un attimo sbatti gli occhi senza dire niente. Non sai bene se siano i capelli castani legati in quel modo scomposto eppure affascinante, gli occhi scuri o il mezzo sorriso ad attirare di più la tua attenzione. È più plausibile che sia tutto l’insieme. E ti chiedi come hai fatto a non notare la presenza un ragazzo del genere nell’arco della serata. Non che tu sia la più audace delle ragazze, ma attenta di solito lo sei.

Cerchi di acquistare un minimo di distacco e incroci le braccia sul petto, inarcando un sopracciglio. “Le sembro una cameriera?”

Guarda con visibile titubanza la tua camicia bianca e la cravatta nera. “Ehm… mi scusi, pensavo che… sa, vista la…” si indica distrattamente il collo, e qualcosa nel suo imbarazzo ti intenerisce.

“… stagista” gli vai incontro senza scomporti troppo, piegando leggermente il capo.

“Oh. Studia… arte?” chiede, grattandosi la nuca.

Annuisci. “Già. Anche lei?”

Scrolla le spalle. “Studiata seriamente mai. Sono un… appassionato, più che altro, mettiamola così” si volta verso tuo padre. “Le piace la mostra che ha organizzato il signor Deveaux?”

“Oh sì” questa volta sorridi. “Ma sono qui soprattutto perché lo conosco, e ho già lavorato con lui”

“E’ un suo professore?”

“… no. È mio padre”

Strabuzza gli occhi, senza sapere bene cosa dire. “Oh. Voglio dire, caspita. Wow. Deve essere…”

“… come qualsiasi altro padre, nulla al di fuori dall’ordinario” garantisci alzando spallucce.

Il ragazzo sorride di rimando.

“Comunque il bagno è là” gli indichi la porta al fondo della sala. “Esci, ti ritrovi in un corridoio e vai a destra. Lo trovi subito”

“Gra… grazie mille”

Ci pensa su un attimo, prima di porgerti la mano. “Comunque piacere, Isaac Mendez”

Gliela stringi. “Piacere, Isaac” non gli dici il tuo nome. Lui ti guarda per un attimo in attesa, poi ritrae la mano un po’ accigliato e si volta.

Aspetti che abbia mosso qualche passo, prima di richiamare la sua attenzione – è un gioco, è stupido ed infantile, ma ne hai voglia.

“Ehi?”

Lui si volta. “Mh?”

Sorridi e accenni appena un saluto con la mano. “Io sono Simone”

Di colpo sembra tranquillizzato – forse aveva pensato che avessi qualche rotella fuori posto – e sorride a sua volta. “Arrivederci, Simone”


Vorresti non amare. Lo vorresti davvero. O se non altro, saperlo fare in maniera genuina. Non come ama una stronza. Vorresti poterti strappare via quel pezzo di cuore che appartiene ad Isaac e quello che appartiene a Peter, restituirli ad entrambi e toglierti finalmente di mezzo, dandogli la possibilità di ricominciare senza di te, ognuno per la propria via.

Ma il mondo vuole che tu scelga. Che tu la smetta. E non puoi farlo. Ci sei troppo dentro, e finirai per impazzire. Già lo sai. Speri solo che duri poco e che la morte arrivi presto.

Chiederesti ad uno dei due di ucciderti con le proprie mani, se ti dessero retta. Non c’è nessun altro che abbia più diritto di odiarti.

Qualcosa si muove dietro di te, e ti asciughi violentemente gli occhi. Ti volti e ti chini fino ad accarezzargli appena le labbra con le tue, e sembra calmarsi. Buffo, in due anni non ti era mai capitato di notare quanto fossero regolari quelle labbra. E perfette. Nessun’imperfezione a storcergli il sorriso. Nessun ciuffo ad occupargli la fronte e ombreggiargli gli occhi. E quello in cui scivoli passivamente, accoccolandoti contro il suo petto, non è l’abbraccio mozzafiato e passionale in cui riversi il fuoco che hai dentro per evitare che ti bruci fino a consumarti, no. È l’abbraccio a cui appartieni. Quello che nonostante tutti i paradossi di questo mondo, la droga e le altre battaglie che non è in grado di vincere, è l’unica sicurezza che ti rimane.

Adesso ti sta stringendo a sé. Una presa troppo debole, ma già ti manca l’aria.

Guardi di nuovo il cielo, e ti fai schifo.
 
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