Don't say I love you [Peter/Claire], Out of Time AU

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CAT_IMG Posted on 28/3/2008, 23:21

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Titolo: Don't say I love you.
Fandom: Heroes
Characters: Peter Petrelli, Claire Bennet
Pairing: Peter/Claire
Disclaimer: Le stelline don't belong to me u.u
Rating: NC-17
Warnings: è ambientata nell'AU di Out of Time (2x07), quindi presumibilmente spoiler per chi non ha visto la seconda stagione (per quanto si riferisca a fatti inventati e successivi a ciò che effettivamente succede nella serie). Incesto, rapporti sessuali tra zio e nipote - la quale è ancora inevitabilmente minorenne, immagini non esattamente piacevoli e linguaggio non esattamente oxfordiano.
Notes: Ooookkay, qualcuno mi picchi se mi viene di nuovo l'idea di fare qualcosa di vagamente simile. Direi che definirla tragica è un eufemismo, mi fa piangere il cuore pensare a qualcosa del genere. Ma tanto per cambiare, è una di quelle ispirazioni difficilmente ignorabili. Mi è venuta in mente ripensando ad E sorridi: la prima parte di questa fic è una sorta di antefatto, mentre la seconda si svolge alla fine di tutto, per così dire.

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Seduta per terra, ti circondi le gambe con le braccia e appoggi il mento alle ginocchia. L’ormai familiare rumore dello sciacquone non si fa attendere, ma è sempre meglio quello di ciò che lo precede e che anche questa volta è riuscito a rendere i tuoi occhi lucidi per la frustrazione.

La porta del bagno si apre alle tue spalle, ed esce barcollando, senza guardarti. Con un paio di passi sconnessi raggiunge il letto, e ci crolla sopra. Respira pesantemente. Sai che sarà questione di mezzora, forse un’ora, prima che vomiti di nuovo, senza aver mangiato niente.

E che quella routine andrà avanti, ancora e ancora, non sai dire per quanto, ma Dio, speri il più possibile. O forse no, forse non si può sperare qualcosa a cui manca il coraggio di pensare.

Singhiozzi, e rantolii, e gemiti, e vomiti, e asma. Ancora, ancora, e ancora.

“Claire…”

Ti alzi in piedi, e gli sorridi. Non sai come, ma lo fai, come se quella pelle più bianca delle lenzuola non fosse così raccapricciante, come l’alito che sfugge inesorabilmente dalle sue labbra semiaperte non fosse la vita che pian piano se ne va.

“Sono qui”

*

 

Ha la fronte calda, e quando gli scosti i capelli troppo lunghi rabbrividisce in quella sorta di confuso dormiveglia.

Ti guardi le mani. C’era un flaconcino di smalto rosso fuoco nel beauty-case che tua madre ti ha mandato qualche settimana fa… prima di essere anche lei una dei tanti. E chissà come mai stamattina ti è sembrato particolarmente femminile. Forse hai trovato che stesse bene con quella camicetta di seta. Dopo giorni passati in tuta ti sembra quasi che quei vestiti da donna siano così inconsistenti da renderti nuda, e ti senti così in soggezione che è come se ci fossero migliaia di occhi invisibili a scrutare ogni tua mossa. Ma cerchi di non pensarci, perché è solo una la persona ai cui occhi ci tieni ad apparire bella. Del resto, onestamente, non te ne frega più tanto.

Forse oggi troverai il coraggio di chiederglielo.

Ti ritorna in mente quanto hai dovuto ingegnarti per infilare nelle asole i bottoni della camicetta, e ti chiedi stupidamente se anche sbottonarla richieda la stessa fatica.

L’eye-liner ti dà fastidio e ti fa prudere gli occhi. Fra cinque minuti ti alzerai e te lo andrai a togliere. O forse no. Sai che non lo farai, che dopo tutto ciò che hai passato continuerai a crogiolarti nell’illusione che due righe nere spesse mezzo centimetro possano rendere i tuoi occhi più azzurri, o il tuo sguardo più intrigante. Perché non c’è niente di più patetico di un’adolescente a cui viene proibito di vivere la sua età. O che se lo proibisce da sola, ma questo non pensi faccia molta differenza.

Apre gli occhi, guardandosi intorno. Ti trova quasi subito.

Riesce a sorriderti. “Ti sei truccata”

Mi sono anche spazzolata i capelli.

Annuisci e abbassi lo sguardo. “Non pensavo che te ne accorgessi”

Una flebile risata esce dalle sue labbra. “… sarei davvero… un pessimo… ragazzo” riesce a buttare fuori.

Il tacco delle decolleté urta contro la gamba metallica dello sgabello, e di colpo quella che qualche ora fa avevi definito una trovata geniale inizia ad apparirti una colossale idiozia. Abbassi gli occhi.

“Ehi…” allunga una mano per sfiorare appena la tua. “Stai bene?”

Tiri su col naso, e sollevi la testa. “Benissimo” chiudi un attimo gli occhi. “Sto… bene. Perché dovrei stare male? Sto bene”

Sospira. “Dimmi qualcosa, ti prego”

Stringi i pugni. Odi quando fa così. “Ma cos-… cosa devo dirti, Peter, cosa?!” ti asciughi convulsamente le lacrime al punto da arrossarti gli occhi e farteli bruciare. “Non riesco a…” una parte di te sa che non dovresti, non vorresti e non vuoi parlargli in quel modo. “… ho paura che ogni cosa che ti dico possa essere… ogni volta che ti parlo” tiri un lungo sospiro “ho il terrore che sia l’ultima. E non la voglio sprecare”

Non ti risponde. Si limita a guardare un punto che si trova oltre le tue spalle, probabilmente anche oltre la finestra.

“Se vuoi me ne vado” aggiungi distogliendo gli occhi dal suo viso.

Ride. Ride. “Lo sai cosa vorrei, Claire? … che i miei ultimi giorni somigliassero di meno ad una telenovela. Lo vorrei proprio tanto, grazie”

Per un attimo ridi anche tu, mordendoti la lingua per trattenerti dal ricordargli che nella tua vita hai visto molte meno telenovele di quanto lui possa pensare. “Va bene. Hai ragione”

E poi, chissà come mai, quello ti sembra il momento giusto per mettere in atto quello stupido piano grazie al quale ti porti il groppo in gola, sperando che, almeno realizzandolo, possa acquistare una parvenza di senso.

Abbassi di nuovo gli occhi, sfili il primo bottone dall’asola e pensi che sì, deve trattarsi di vera seta. Quando eri piccola avevi scoperto di essere allergica a quei tessuti sintetici che si spacciano per tale.

Al secondo bottone l’immagine di Peter che, mettendo insieme tutte le poche forze rimastegli, si alza in piedi ed esce da quella camera è così vivida nella tua mente che sei costretta ad incrociare le caviglie con le gambe della sedia per importi di rimanere calma.

Al terzo bottone qualcosa ti solleva il mento, ed è la mano di Peter.

“Non dire niente, ti prego”

Sospira. “Cosa stai facendo, Claire?” sembra stanco, ma non quella stanchezza dovuta alla malattia, ed è peggio del peggio. Perché preferiresti farlo arrabbiare piuttosto che annoiarlo.

“Voglio farlo prima di morire” e ti accorgi che forse era meglio optare per la verità fin dall’inizio.

Scuote leggermente il capo. “Non funziona così”

Decidi di ignorarlo. “E’ tanto sbagliato, in fondo? Ho pur sempre diciassette anni”

“Non sei tu quella che ha i giorni contati, Claire”

Vaffanculo, Peter. Vaffanculo. Vaffanculo.

Stringi i denti e procedi con il quarto bottone, ma con la coda dell’occhio lo vedi tirarsi su a sedere, prima che butti le gambe giù dal letto e faccia per alzarsi.

“No, Peter, cosa…” cerchi di fermarlo, ma è già in piedi. Ti prende per una mano e ti fa sedere sul letto.

“… ad una condizione” fatica a reggersi in piedi, ma cerca di non darlo a vedere. “Lascia fare chi è capace”

Gli sorridi, sperando che lui faccia altrettanto, ma è più serio che mai. Le mani gli tremano quando ti sgancia l’ultimo bottone. Tremano anche quando sale a scostarti i capelli dal viso, rischiando di ficcarti un dito in un occhio. Poi ti fa scorrere la camicetta lungo le spalle, e sono una serie di lunghi e profondi respiri nella flebile e disperata speranza di non iniziare a tremare anche tu, o è finita.

Quando si lascia cadere sulla sedia alle sue spalle e ti prende per i fianchi, trascinandoti a cavalcioni su di lui, per qualche attimo rimani stordita, convinta di esserti sognata tutto. Ma l’odore di medicinali è troppo forte, e crolli sulla sua bocca ancora prima che lui possa prenderti il viso tra le mani e baciarti a sua volta. Le labbra gli si sono assottigliate, ogni giorno sembrano voler sparire un po’ di più, ma poco cambia. Pensare che la persona che si ama sia nata per baciare è una di quelle cose talmente sciocche da sembrare giuste, e non trovi dentro di te neppure il coraggio di alzarti per evitare di massacrare con il tuo peso le sue ossa che stanno unite le une alle altre per grazia di Dio.

 Si stacca da te per potersi togliere la maglietta, che cade sul pavimento freddo di quella stanza d’ospedale. Ti chini per baciargli una guancia mentre le tue mani scorrono lungo il suo petto e il suo addome, percorrendo la pelle spaccata dai tagli, le linee di ciò che è rimasto dei suoi muscoli che si contraggono mentre si muove contro di te e i capezzoli ridotti a due ammassi di croste. Scotta di febbre sotto le tue dita, ma le mani che ti percorrono la schiena sono gelide. Si fanno improvvisamente forti e ti trattengono per i fianchi quando ti attira più contro di sé, facendo sì che i vostri bacini si sfreghino, e il tuo istinto sarebbe quello di fare un salto alto almeno mezzo metro. Non siete mai arrivati a questo.

Ma cerchi di pensare al fatto che gli hai appena chiesto di arrivare a questo e a molto altro.

Il tuo cuore sembra voler protestare ferocemente – come se non avesse abbastanza ossigeno a disposizione – quando il suo braccio destro scende di lato, ti afferra la gamba e contraendo le labbra in una smorfia di dolore la solleva leggermente. Ti zittisce scuotendo il capo quando vorresti dirgli che non è il caso, non ce n’è bisogno, puoi anche farlo da sola.

Ti sfila via una scarpa e poi una delle due parigine nere, poi fa lo stesso dall’altra parte. Cerca di aprirti la gonna e ci riesce con il tuo aiuto, facendo saltare via il bottone e lacerando la stoffa. Ti viene da ridere, e nemmeno sai perché. Non sai come succeda, ma qualche secondo dopo la gonna l’avete dimenticata, è per terra insieme al resto.

Cerchi vivacemente di opporti quando vuole a tutti i costi prenderti in braccio ma non sente ragioni. Si alza in piedi reggendosi al comodino e ti ritrovi ad allacciargli le gambe attorno alla schiena.

Ti adagia sul materasso, poi abbassa gli occhi e si sfila i pantaloni del pigiama. Sei sicura di avvampare quando fa lo stesso con i boxer.

E no, non pensi di potercela fare, ti basta guardarlo e già ti sembra di sentire dolore.

La verità è che non ti senti pronta per niente.

Fa per sdraiarsi accanto a te ma ti crolla addosso, mormorando uno ‘scusa’ spezzato e mortificato. Con un movimento scomposto cerca di coprire entrambi con il lenzuolo. Il risultato è che vi ritrovate avvolti dalla vita alle cosce in un groviglio indefinito di stoffa bianca e sterile, e per il resto esposti alla luce del tramonto.

Ti bacia mentre ti toglie il reggiseno, forse per tranquillizzarti. Per quanto il suo membro sia lì a premere tra le tue gambe e contro la stoffa dei tuoi slip, e non ti tranquillizzeresti nemmeno se qualcuno ti anestetizzasse.

Serri i pugni attorno alle sbarre che compongono la spalliera del letto quando la bocca, il naso, la fronte e la lingua di Peter ti accarezzano il seno.

Il fuoco nel tuo stomaco sembra sedarsi almeno un po’ quando riesci ad abituarti a respirare a quel ritmo e il fiatone non rischia più di strozzarti, e abbassi una mano per serrare le dita attorno ai capelli di Peter.

Una ciocca ti rimane tra le mani, e hai la nausea.

È piacevole la sensazione delle dita di Peter che si infilano nelle tue mutandine, eppure ti gira la testa.

Una serie di convulsi scrosci di lenzuola ed incrociarsi di gambe che non ti è dato vedere, e poi senti solo che non c’è più alcuno slip a dividervi.

Cerca i tuoi occhi e ti bacia di nuovo, e qualcosa spinge per entrare dentro di te.

 

Ti eri dimenticato cosa vuol dire perdere la testa in quel modo. Ti eri dimenticato di cosa vuol dire affondare il volto nel collo di una ragazza che geme di dolore mentre tu stai cercando di usare ogni singola goccia di forza che ti è rimasta per trasformare il fastidio in bisogno. Avevi dimenticato quanto è morbido un seno che sfrega contro il tuo petto mentre si inarca sotto di te, alla disperata ricerca di una posizione in cui l’intrusione sia più sopportabile.

Un brivido di freddo ti corre lungo la schiena. E per la prima volta hai paura di morire. Sai che potrebbe succedere adesso, crolli su di lei stremato e tossendo nei suoi capelli, la gola ti brucia e la tua bocca sa di amaro.

Ti tiri su ed è un’altra spinta, e le crolli di nuovo addosso. Le sue mani salgono ad accarezzarti le spalle e i capelli, e chiudi forte gli occhi.

Questo glielo devi. Alla faccia di tutto ciò che non puoi darle, a cominciare da una frase che non finisca con ‘mi dispiace’.

Una parte del tuo cervello registra che la sua apertura si sta facendo più morbida e i suoi muscoli più rilassati.

Sollevi appena il capo, quel tanto che ti basta per vedere il suo volto lucido.

Sta sorridendo. Sorridendo.

È un sorriso sofferto, ma cazzo, sorride, Dio santo.

E non è bella, dannazione, la tua vita sarebbe stata più facile se Claire fosse solo bella. Claire è inguardabile, è peggio che puntare gli occhi nel sole.

Ti puntelli sui gomiti e baciandola cerchi di affondare di nuovo in lei senza che il tuo corpo ceda.

Ogni singola fibra dei tuoi muscoli è tesa e spaventosamente dolorante, ma in qualche modo ci riesci. E forse è un tentativo di placare il dolore quello di Claire, quando ricambia il bacio spalancando la bocca e spingendo la lingua nella tua con un impeto improvviso, si stringe a te con gambe e braccia, e finalmente senti i tuoi occhi appannarsi di un sudore che non è quello della febbre.

E allora non te ne fotte un cazzo del dolore, e nemmeno di essere volgare.

Le prendi il volto tra le mani e le tiri indietro i capelli, poi le percorri la pelle del viso con le labbra, baciando, leccando e sospirando, e affondi il naso nei suoi capelli quando lei piega la testa per baciarti il collo.

Sa di rossetto e insicurezza, ogni suo respiro, ogni suo affanno sembra volerti disperatamente dire che non sa cosa fare, per quanto cerchi di apparirti audace quando le sue unghie lasciano il loro segno lungo la tua schiena fino ad arrivare alle natiche, o quando geme nella tua bocca senza paura di essere sfacciata – e diavolo, lo è.

“Pe… ter…”

“… shhh” vorresti raccomandarle di non sprecare il fiato, ma è una di quelle cose che quando si è più nella fossa che fuori non ci si può permettere.

 

Quella vorticosa cascata color miele schiaffeggia il cuscino quando l’orgasmo la scuote, e hai paura di vomitarle il cuore in faccia da quanto lo senti salire lungo la gola.

Un altro paio di spinte che scrollano passivamente il suo corpo stravolto e la raggiungi, serrando le labbra contro la sua clavicola.

 

Quando riapri gli occhi, è voltata verso di te. La pelle intorno alle labbra socchiuse è irritata dal continuo sfregamento contro la tua bocca screpolata. Sporgi il viso per baciarla ma tutto ciò che puoi regalarle è una pallida carezza ad un angolo della bocca.

Qualche ciuffo dorato le si è appiccicato al volto, in una ragnatela di capelli e sudore. Il più lungo le percorre la guancia sinistra e finisce tra le sue labbra. Ha gli occhi lucidi di qualcosa che non vuole né entrare né uscire, semplicemente rimanere lì a macchiarle lo sguardo.

“Di solito è meglio” le sussurri “non… è sempre così. Con… qualcuno che respira aria anzi che acetone e riesce a reggersi in piedi è un’altra cosa”

La flebile imitazione di un sorriso le attraversa il volto, ma non ne sei sicuro. Forse è solo l’effetto della luce che pian piano lascia il suo posto all’ombra. Sospira e chiude gli occhi.

 

E vorresti veramente dirglielo. Vorresti che lo sapesse, merita di sapere. Che dopo quello che è successo a tuo fratello, se ancora un proiettile lanciato per mano tua non ti ha attraversato il  cranio spaccandolo a metà è solo grazie a lei.

Una volta ci hai provato. Ti ha bloccato al ‘ti…’, non ha voluto saperne di sentire altro.

La stronzata più colossale che tu possa concepire. Non potete permettervi di perdere tempo.

Eppure la rispetti, anche se ora dorme e non potrebbe sentirti.

Ti basta ripeterlo a te stesso, e per un attimo tutto riesce ad avere di nuovo senso.

“… tantissimo. Neanche ti immagini quanto”

*

Three months later.

 

 

Due uomini in nero si avvicinano al letto. È rassegnazione quella che brilla nei loro occhi. Rassegnazione sbiadita. Di chi si rassegna da tanto, troppo tempo.

Uno dei due allunga una mano per abbassare le palpebre sugli occhi della ragazza distesa.

“Nome?”

L’altro uomo legge qualcosa sulla pila di fogli che tiene in mano.

“… Bennet. Claire Bennet”

“Anni?”

“Diciassette. Diciassette anni”

Per un lungo attimo tacciono entrambi.

“Qualche referenza?”

“I genitori adottivi sono morti, e sembra anche quelli biologici. Qui c’è scritto che ha un fratello, ma anche se volessimo rintracciar-…”

“… Claire!”

Una donna entra correndo, precipitandosi accanto al letto. Crolla seduta sullo sgabello, gli occhi sbarrati. Mezza età, carnagione pallida e capelli neri raccolti scompostamente dietro la testa.

“No…” si prende il volto tra le mani.

“Signora, questo è un sopralluogo privato, a meno che non sia un parente della vittima”

La donna solleva gli occhi tremendamente azzurri e li punta in quelli di uno dei due uomini. “Quando è successo?”

“Non… lo sappiamo, con esattezza. Suppongo in tarda mattinata”

La mano di Claire è gelida. Ha le unghie mangiucchiate e le dita troppo giovani.

Claire. Anche lei. Anche l’ultima goccia di speranza versata tra i rovi.

La donna non si accorge della lacrima che le sta solcando la guancia, e il suo piede tocca qualcosa, sul pavimento. Si abbassa quel tanto che le consente di raccoglierlo, e se lo rigira tra le mani.

È una gonna nera, senza bottone e leggermente strappata sotto la zip.

“E’ una parente, signora?”

Chiude gli occhi. “Ero la moglie di suo padre”

L’uomo con i fogli in mano inarca un sopracciglio, confuso. “Pensavo che i genitori fossero…”

“… non sono sua madre” sospira. “Non ho nemmeno mai parlato con Claire” si copre il volto con una mano. La sua voce è rotta da un singhiozzo. “E non avrei… non avevo intenzione di farlo per il resto della mia vita”

“Sa dirci altro sulla ragazza?”

Heidi gli porge il foglio ormai stropicciato. “Era incinta”

Il secondo uomo, quello con una mano appoggiata sul cuscino, rivolge alla donna uno sguardo quasi comprensivo. “Ha figli, signora?”

Heidi manda giù un magone. “Me ne è rimasto uno. Che passa le giornate a tossire e le notti a vomitare”

“Lo porti via da New York. Ho sentito dire che ci sono delle zone ancora protette, e se si è ad uno stadio della malattia ancora precoce c’è possibilità di guarigione”

La donna scuote il capo. “Questa ragazza poteva rigenerarsi. Guarire da qualsiasi ferita. La vede dov’è adesso? Crede davvero che il problema sia solo di New York? … se qualcuno ha deciso che deve andare a finire così, non cambierà niente dove ci si trova” le scosta i capelli dal viso, aggiustandole una ciocca dietro l’orecchio. “Ha mai… avuto la sensazione che qualcuno che non c’è più le stia parlando?”

L’uomo con le carte in mano si guarda intorno spazientito, ma l’altro alza lo sguardo su di lei. “E che cosa le dice?”

Heidi sospira. “Il padre di Claire. Se n’è andato con la prima epidemia, quella di sei mesi fa. E l’ultima cosa che mi ha detto è stata di non preoccuparmi, di badare a suo fratello e ai suoi figli, e che… che dovevamo rimanere qui. Mi sembra di risentirlo ogni notte”

L’uomo annuisce. Poi entrambi le rivolgono un cenno del capo, che bizzarramente somiglia quasi ad un inchino. Si allontanano dal letto, e con un ultimo ‘Salve’ abbandonano la stanza.

 

È rimasto poco tempo, deve fare in fretta. Simon, la sua febbre a quaranta e i suoi occhi cerchiati hanno bisogno di lei.

Prende la mano di Claire e se la porta all’altezza del viso. Ne bacia il dorso bianco, le vene ormai svuotate da quel sangue così miracoloso, che non scorre più. Anche lui ha dovuto arrendersi.

Non si accorge che ha finalmente smesso di piovere. Un raggio accecante penetra le sue palpebre abbassate, e apre gli occhi.

 

Per la prima volta dopo tre mesi, il sole brilla su New York.

 
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